Carlo Zangarini

Carlo Zangarini (Bologna, 9.XII.1873 – ivi, 19.VII.1943).
Giornalismo, librettistica e affini
Come un Allegro con brio e un Andante capriccioso. La vita e la carriera di Carlo Zangarini, montesanpietrino naturalizzato bolognese classe 1874, sono di quelle che somigliano al piatto di un goloso a un buffet: un po' di tutto, tutte cose diverse e il più delle volte neanche troppo bene assortite, ma comunque tante e alla rinfusa. Giornalista e poeta (o forse, meglio, poligrafo), regista e sceneggiatore, commediografo, pubblicitario, librettista e infine, forse in virtù di quest'ultima attività o per frequentazioni, docente di Letteratura poetica e drammatica al nostrano Liceo musicale, questo poliedrico personaggio è il tipico prodotto della Bologna fin-de-siècle: allegra e spensierata nel suo autocompiacimento, a volte acuta e creativa ma allo stesso tempo limitata dal suo, si direbbe, eterno provincialismo.
Sta di fatto che nell'epoca di Carducci, Verga, Pascoli e D'Annunzio (ma anche di Stecchetti, di Argia Sbolenfi e del Sgnèr Piréin) ecco spuntar fuori tra questi ultimi e le pagine di una rivista umoristica locale, «Bologna che dorme», proprio lui, Zangarini. Sempre che si tratti di lui, il primo numero (8 dicembre 1898) lo vede esordiente impegnato sotto pseudonimo in una rubrica di mondane amenità teatrali a largo spettro che vanno da un Comunale ancora risonante di echi wagneriani, Lohengrin e Sigfridi, a un Voltone del Podestà con le legnate di Fagiolino a far da sottofondo agli sproloqui del Dottor Balanzone. Il tutto passando per il Corso, il Duse, il Contavalli, tra cronache bizantine e indiscrezioni accanto a nomi decisamente di maggior peso come, ad esempio, Adolfo Albertazzi e Giuseppe Lipparini.
L'orientamento del periodico - che si definisce "umoristico letterario illustrato" e su cui Zangarini scrive firmandosi Momo, Il Narciso, Zanga - è nettamente goliardico e specchio di una realtà minuscola come quella della città in cui nasce e prospera per un periodo tutto sommato notevole, ben 53 numeri, risultato ottenuto non solo grazie ad illustratori di livello come Augusto Majani "Nasica", ma anche dalla capacità di fare il verso a tutto e a tutti ed in particolare (come evitarlo?) a Gabriele D'Annunzio.
Tuttavia il suo limite è quello, appunto, di una dimensione municipale fin troppo angusta. Sarà da questa consapevolezza che la colorita redazione del «Bologna che dorme» deciderà - uno dei fondatori del «Resto del Carlino», Amilcare Zamorani, a capo - di trasmigrare in una nuova realtà caratterizzata da orizzonti letterari ed artistici molto più vasti. Diretta dallo stesso Zamorani «Italia ride» esce il 6 gennaio 1900 tra nomi assolutamente di punta come gli illustratori Marcello Dudovich, Duilio Cambellotti, Giuseppe Scalarini e letterati del calibro di Luigi Capuana, Ugo Ojetti, Alfredo Oriani e quel Guelfo Civinini la cui strada non molto tempo dopo incrocerà sensibilmente quella di Zangarini. Il quale non solo ora da umorista è diventato novelliere (lo spettro di D'Annunzio, eterno convitato di pietra, aleggia nei suoi scritti), ma è entrato in contatto con musicisti che collaborano alla stessa rivista: Billi, Mascagni, lo stesso Puccini tra gli altri. Tra la pubblicazione di una romanza, uno scambio di lettere, qualche incontro in redazione o in osteria la via maestra (sempreché tale si possa considerare per l'eclettico "Zanga") è ormai segnata: sarà librettista.
E librettista sarà nonostante il suo primo amore, il giornalismo, non passi assolutamente in secondo piano: «Il Pugno di ferro», periodico di satira politica ad orientamento democratico, lo trova alla direzione dal 1902 al 1904, così come diverse sono le collaborazioni al «Resto del Carlino» e ad altre pubblicazioni bolognesi nel tempo. La nuova attività sboccia timidamente nei versi scritti attorno al 1900 per Heremus, un poema sinfonico oggi perduto di Primo Riccitelli, a cui segue il libretto per Zazà, composto a quattro mani con l'autore della musica, Leoncavallo. Il musicista napoletano è ormai in fase calante conclamata, ma ciò non cambia l'orbita dell'astro nascente Zangarini, anzi! Sempre fedele a se stesso e alla sua caratteristica vena goliardico-petroniana che ne fa uno dei membri più stimati dell'Accademia della Lira, il sodalizio di giornalisti e personaggi notabili (tra cui Alfredo Testoni, Ermete Novelli, Alfredo Oriani e Arturo Gazzoni) frequentanti i migliori ristoranti di Bologna per consumare menu ristrettissimi ma al modico costo di una lira, il buon Zanga è ormai solidamente piazzato su un piedistallo sufficientemente alto per essere visibile a tutto l'orizzonte musicale del tempo. Dopo Sonzogno, editore di Zazà, anche le altre maggiori case editrici hanno cominciato a segnarlo nel proprio carnet.
Arrivano così nuove commesse. Nel 1907 gli viene affidata la versione ritmica di Hans, il suonatore di flauto, operetta del francese Louis Ganne su libretto di Maurice Vaucaire. L'anno successivo i libretti per Berta alla siepe di Emanuele Gennai e, composto "dietro il vivo interessamento del poeta futurista Filippo Marinetti e di Sem Benelli", quello per Terra promessa di Arrigo Pedrollo. Quindi, nel 1909, la traduzione del libretto di François-Benoît Hoffmann per la Medée cherubiniana, opera allora pressoché dimenticata e rilanciata alla grande nella stessa versione scaligera una cinquantina di anni più tardi da Maria Callas.
Dopo Saltarello, dramma lirico su musica di Amleto Zecchi, ecco nello stesso 1910 la conclusione di una collaborazione in molti sensi tormentata non tanto per il librettista quanto per il compositore. Il 10 dicembre di quell'anno, con l'ugola di Caruso e sotto l'intransigente bacchetta di Arturo Toscanini, va in scena con enorme successo al Metropolitan di New York la prima della Fanciulla del West. Puccini aveva iniziato a lavorarci su fin da quando, tre anni prima e sempre a New York, aveva assistito al dramma in prosa di David Belasco The Girl of the Golden West rimanendone letteralmente affascinato. Tuttavia, tornato in Italia con la ferma intenzione di dar vita a un'opera sullo stesso soggetto, si trova di fronte a non pochi problemi, tra cui la morte di Giuseppe Giacosa, già in tandem con Luigi Illica per i fortunatissimi libretti di Bohème, Tosca e Butterfly, lascia un vuoto che nelle valutazioni del maestro il solo Illica non sarebbe stato in grado di colmare. La decisione di sostituire il piacentino con Zangarini arriva quasi subito, e non senza pesanti recriminazioni da parte di Illica, come una lettera di Puccini a Giulio Ricordi testimonia (21.IX.1907), né senza pressioni da parte di Zanga, come si vede dal medesimo carteggio il 14 dello stesso mese. Ragione della scelta, molto probabilmente un suggerimento di Tito Ricordi che Puccini trova evidentemente convincente: visti il soggetto e l'ambientazione dell'opera, perché non conferire l'incarico a un librettista che di essi come della lingua abbia la miglior conoscenza possibile?
Di madre americana, e sicuramente attratto dalla notorietà del compositore nonché dalla prospettiva di entrare in Casa Ricordi dalla porta principale, Zangarini accetta, trovandosi però in breve in un ginepraio da cui neppure lui riesce a districarsi. Intanto il suo lavoro lascia piuttosto freddo Puccini, che in numerose lettere (a Giulio Ricordi, alla corrispondente inglese Sybil Seligman, al grande amico e responsabile di Casa Ricordi a Napoli Carlo Clausetti) se ne lamenta: lavoro fiacco, trova; "pedestre", svolto con linguaggio "terra terra", assolutamente inadeguato. A ciò, e siamo ancora nel 1907, seguono le frustrazioni con relativi sarcasmi esternati al Sor Giulio per la lentezza con cui "Bologna" lavora. Un'indolenza peggiorata da una pervicace latitanza, chiara volontà di sottrarsi ai propri doveri che fa letteralmente andare in bestia un già irascibile maestro, e che, in tutta probabilità, era dovuta ad una nuova importante commissione affidata al librettista da Sonzogno: la versione ritmica italiana del Pelléas et Mélisande di Debussy che uscirà l'anno dopo.
E l'anno dopo, di ritorno da un viaggio in Egitto, Puccini si trova finalmente di fronte ai primi due atti, completi e faticosamente terminati ma a suo giudizio ancora bisognosi di tagli e modifiche. Di nuovo pressoché irreperibile, a marzo Zangarini viene finalmente affiancato da quel Guelfo Civinini già suo collega ai tempi dell'«Italia che ride» ed ora stimatissimo giornalista. Mentre Puccini inizia la composizione vera e propria Civinini si adopera, procede alle modifiche, taglia, fa quel che può, ma a sua volta poco dopo scompare. "Siamo in mano di gente senza coscienza", si dispera Puccini con Ricordi l'11 luglio. "Quei librettisti sono un disastro. Uno è scomparso e l'altro non risponde neppure alle mie lettere! Ed io son qui che cerco arrangiarmi, ma malamente posso far da me".
Le cose sembrano finalmente migliorare quando una vera e propria tragedia piomba a rallentare ancor di più i lavori: accusata violentemente dalla Signora Elvira di aver sedotto il marito (vista la, diciamo così, inclinazione del Maestro per il gentil sesso il corsivo è di rigore), nella villa di Torre del Lago la giovanissima domestica Doria Manfredi si suicida causando non solo uno scandalo enorme, ma un vero e proprio blocco della vena creativa di Puccini. Dopo un 1909 fatto sostanzialmente di udienze processuali, condanne, pene fortunosamente schivate e furiosi dissapori fra i coniugi con relativa prostrazione fisica e morale, nell'aprile del 1910 e con l'apporto sostanziale di un redivivo Civinini l'opera trova infine compimento. Zangarini, a sua volta, già veleggiava verso nuove commesse.
Il primo di questi approdi - siamo nel 1911 - è presso un giovane Riccardo Zandonai alla sua seconda prova operistica, Conchita, da un romanzo caldamente raccomandato al musicista roveretano da Giulio Ricordi, La Femme et le Pantin dell'allora celebratissimo Pierre Louÿs. Detto così in soldoni, e fino a un certo punto, l'argomento ha un che di inquietante déjà vu: siamo in Spagna, a Siviglia, la protagonista è, guarda un po', una seducente sigaraia, c'è la gelosia, un amante ricco e respinto, ma fortunatamente mancano torero e coltellate. Del libretto di Maurice Vaucaire a Zangarini viene affidata la versione italiana, e certo dopo l'esperienza della pucciniana Fanciulla ci si chiede cosa mai avrà portato Ricordi ad avallarne la collaborazione riuscendo comunque a dormire la notte. Ma tant'è: schivata per quanto possibile ogni suggestione alla Mérimée (ma anche alla Louÿs, il cui romanzo finisce tragicamente), tra decadentismo e realismo e in un tutto sommato riuscito mélange a lieto fine l'opera va in scena a Milano ottenendo un notevole successo di pubblico e di critica.
Non così invece per il lavoro successivo di Zandonai, Melenis, di cui Zangarini è autore del libretto assieme al veronese Massimo Spiritini. Come la precedente l'opera ha la sua prima al Dal Verme di Milano, ove riscuote un discreto successo di pubblico rimanendo però notevolmente penalizzata da una critica piuttosto divisa se non addirittura demolitrice, i cui strali si accaniscono proprio sulla componente letteraria. Si arrivò a stroncature tranchant, con pesanti addebiti di freddezza, inconsistenza, macchinosità, lacunosità, incongruenza. "Un dramma lirico", scrisse il critico Alberto Gasco a proposito della seconda ed ultima rappresentazione tenutasi a Roma, che "non regge ad una qualsiasi analisi critica. La figura della protagonista riesce incomprensibile [...]. Melenis, l’etèra malata di sentimentalismo morboso, è una seccatrice [...] si offre con ostinazione curiosa a Marzio che non la vuole. Il dramma [...] appare illogico, artificioso, privo di vero interesse". Almeno per quanto riguarda l'apporto di Zangarini al naufragio di questa "melensa Melenis" la cosa resta piuttosto oscura. Manca infatti qualsiasi corrispondenza in materia fra lui e Zandonai, e ben poca e poco eloquente ne resta con Spiritini. A suo parziale discarico potrebbe forse servire l'affermazione dello stesso maestro, il quale, proprio a Spiritini scrivendo, ricorda che Zanga si era limitato a una revisione storica e linguistica del testo, e che comunque il vero e maggior merito suo era stato di aver ideato e confezionato un eccellente finale ("una cosa genialissima", afferma Zandonai soddisfatto).
Mentre il 1912 vede il roveretano rivolgersi per la sua Francesca a livelli letterari decisamente superiori, il poliedrico bolognese si prende una pausa derubricandosi all'operetta con due lavori del compositore franco-rumeno Yvan de Hartulary Darclée, Capriccio antico e, l'anno seguente, Amore in maschera, ai quali un paio di anni dopo si aggiunge il libretto per la più celebre e longeva Principessa della Czarda di Emmerich Kálmán. Una pausa, appunto. Una parentesi per uno Zangarini che, nel 1911, aveva segnato al suo attivo una collaborazione con un musicista allora sulla cresta dell'onda e anch'esso in quel momento operante parenteticamente fra i suoi più noti (e riusciti) argomenti goldoniani. Prestigio, rinomanza, maestria, impegno, novità: l'aspettativa era di un grande successo. E invece... Nei confronti dei Gioielli della Madonna di Ermanno Wolf-Ferrari - del suo argomento, del libretto, ed anche della musica, accusata di essere un frullato di Leoncavallo e Mascagni condito, iuxta l'origine semiteutonica dell'autore, con uno spruzzo dei due Riccardi, Wagner e Strauss - si può veramente parlare di débâcle totale. Ed infatti la cosa venne puntualmente ed inesorabilmente sancita dalla critica italiana, che fin dalla prima a Berlino vi trovò in massima parte l'insulsaggine di una napoletanità di maniera, un'oleografia addirittura irritante tra stucchevoli stilemi di genere, pescivendoli e malavita, tarantella e camorra, il furto sacrilego, il popolo vociante e sguaiato, il suicidio finale davanti all'immagine della Madonna e altre demoralizzanti banalità. Insomma, più che un'opera una sceneggiata, che toglieva lustro al Paese così faticosamente impegnato nel conquistarsi sì un posto al sole, ma di certo non quello di una Napoli simile, e che, nella passione incestuosa fra due fratelli e certe scene pruriginose descritte con stantio afrore decadentista, aveva fatto saltar sulla sedia più di un alto papavero in Vaticano. L'opera, si capisce, non riuscì a varcare i confini nazionali rimanendo confinata oltralpe fino al 1953. Come poi Zangarini e il co-autore del libretto, il napoletano Enrico Golisciani, ne uscissero non ci è noto, ma sicuramente non al meglio della fama.
A conclusione di questa importante ma tormentata attività zangariniana, varrà infine la pena ricordare alcune collaborazioni che lo stesso svolse per musicisti oggi pressoché dimenticati ma di discreta considerazione all'epoca: come i libretti per Jaufré Rudel (1909) di Adolfo Gandino, Maria sul Monte di Primo Riccitelli (1911), Il santo di Ubaldo Pacchierotti (1913), L'ultimo dei Moicani di Paul Hastings Allen (1916) ed infine, con Ostilio Lucarini, Le astuzie di Bertoldo (1934) su musica di quel Luigi Ferrari Trecate che, assieme al citato Gandino, con Bologna, la sua Accademia Filarmonica e il suo Liceo musicale ebbe parecchio a che fare.
Poesia, teatro, cinema e pubblicità
Allegro frizzante. Per vario e stimolante che sia, l'eclettismo - quello vero, quello messo in pratica - nasconde sempre una sua debolezza: una certa dose di accidia mista a scarsa fiducia in se stessi e forse anche a un po' di paura delle responsabilità, quest'ultima di solito mascherata da quella levità e noncuranza che fa dire alla gente: "però! E' un geniaccio, ma che spreco!". Il talento infatti (lo "sbuzzo", come si dice a Bologna) quando c'è lo si vede e molto spesso affiora anche nelle piccole cose, che per l'eclettico sono poi quasi sempre l'ossigeno necessario se non altro a sbarcare il lunario. Questo è sicuramente il caso di Zangarini che già nel 1903, dunque ai tempi del «Pugno di Ferro» e delle prime prove librettistiche, si cimenta in quel verseggiare d'occasione che gli verrà poi così utile in seguito: un'ode dedicata all'appena eretto (e alquanto discusso) "monumento al popolano" proprio ai piedi della Montagnola, intitolata Ricordando l'VIII agosto MDCCCXLVIII. A Pasquale Rizzoli scultore e pubblicata sul «Resto del Carlino» del 21 settembre. Tra entusiasmo e polemica, la composizione gronda afflati socialisti e libertari sconfinanti in un giacobinismo fin-de-siècle delizioso ancorché zoppicante:
«[…] Ma il popolano eroe, fatto del saldo
cubito schermo al viso,
come a celare all’atterrato il baldo
suo trionfal sorriso
urla: - Or muori. Ora va. Ben ti sapremo
ricacciare in inferno:
birro, prete o tiranno, io non ti temo:
io vincerò in eterno».
Pochi anni più tardi - e dopo altre prove poetiche quali il dramma tragico in endecasillabi e cinque atti Il Conte di Pancalieri, del 1908 - ecco il Nostro cimentarsi nell'impresa che, al di là dei suoi libretti più celebri, lo proietta nell'empireo di una notorietà tanto grande quanto bizzarra: la pubblicità di prodotti farmaceutico-alimentari. Ancor oggi, a sfogliare quotidiani e riviste di un tempo in cui antibiotici, antivirali, immunosoppressori e tomografie computerizzate erano ancora molto di là da venire, si resta stupiti dalla grande quantità di réclame fatta comparire dalle varie case produttrici di congegni sanitari astrusi vantati come soluzioni regina per artriti, problemi muscolari e simili, preparati chimici fantasmagorici per problemi digestivi, renali e da raffreddamento, malattie veneree (la più parte), polveri e pillole e quant'altro, più efficaci a illudere che a guarire.
Così, tra il Cerotto Bertelli "contro i dolori di reni, petto e lombari", il Premiato dentifricio Vanzetti-Tantini e la Pillola Johimbina ("risveglio istantaneo della potenza virile, fecondatore, unico preparato della Farmacia Melai Enrico, Via Lame 18"), ecco spuntare sul «Resto del Carlino» del 15 agosto 1915, in piena guerra, un sonetto datato in Pesaro 30 luglio 1915 e firmato Carlo Zangarini, che, giocando sui significati della parola "pillole", promette di ricambiare le granate dell'artiglieria austroungarica con i "glomeruli" sparati dall'Albergo Zongo (in realtà una farmacia pesarese): efficacissimi "contro i Croati e l'anemia"! La cosa non finisce qui. Scoperta la bontà del filone (sfruttato dopotutto anche da una vetta assoluta quale D'Annunzio: la penna Aurora, il liquore Aurum, La Rinascente, la FIAT...), Zangarini non perde occasione per catturare, farfalle di opportunità tra i più vari fogli a stampa, ogni possibilità di lavoro come copywriter. Ma a questo punto non si può evitare di far cenno ad una personalità rappresentativa del vero genio bolognese, e non solo industriale: Arturo Gazzoni.
Imprenditore lungimirante, creativo e in grado di utilizzare per le proprie iniziative una notevolissima dose di pensiero laterale e innovativo, petronianamente goliardo e assiduo frequentatore della già nominata Accademia della Lira nonché Maestro Venerabile della loggia Ça ira di Bologna, quindi cavaliere e presidente onorario del Bologna Calcio tra il 1916 e il 1918, console del Perù, commissario dell'Aereo Club "Bortolotti", vicepresidente del Circolo della Stampa e infine, a conclusione del proprio palmarès, Presidente del prestigioso Circolo della Caccia, Gazzoni esordisce a cavallo dei due secoli come commerciante di oli e vini nei locali dell'antico Caffé Tre Re al Mercato di Mezzo, attività che trasformerà di lì a poco prima in ristorante, quindi in “industria di prodotti chimici, medicamentosi, naturali”. Numerosi e soprattutto ben pubblicizzati i suoi prodotti: l'Antinevrotico De Giovanni (1907, tra i testimonial nientemeno che Cesare Lombroso e Paolo Mantegazza), a cui segue la famosa Pasticca del Re Sole contro la tosse sponsorizzata da Ermete Zacconi, Emma Gramatica e Beniamino Gigli, e per la quale il testo pubblicitario, in rima, porta addirittura la firma di Trilussa: Il pappagallo raffreddato.
Quella dozzina di endecasillabi che vantano la bontà e l'efficacia della compressa su ogni malattia da infreddamento, e persino sui pappagalli golosi ("Je darò le Pasticche der Re Sole, / perché co' quelle è certo che guarisce; / ma se per caso seguita a sta' male / è segno ch'è una tosse artificiale"), costituiscono per Zanga una vera e propria sfida. Eccolo dunque ribattere con sedici ottonari stilati su carta timbrata della solita Farmacia Zongo, secondo i quali
«Nella reggia di Parigi
c'è un fracasso indiavolato.
Ha la tosse Re Luigi,
il Re Sole è annuvolato».
E così via, fino a stabilire che
«La ricetta (e non son fole)
di Gazzoni è adesso in mano:
'La Pasticca del Re Sole'
vero farmaco sovrano!».
Ma questo è ancora nulla, perché il vero colpo gobbo in fatto di pubblicità arriva con una già rodata creazione di Gazzoni, sicuramente la più celebre, frizzante e longeva: l'Idrolitina, per la quale Zangarini compone l'altrettanto zangarinamente imperitura filastrocca presente sulle confezioni a tutt'oggi:
«Diceva l’oste al vino: 'tu mi diventi vecchio,
ti voglio maritare con l'acqua del mio secchio'.
Rispose il vino all'oste: 'fai le pubblicazioni,
sposo l'Idrolitina del cavalier Gazzoni!'».
Tra aneddoti gustosissimi conditi sempre da genio e intuizione, Gazzoni non si fermerà qui, ma - in questo simile per eclettismo e fantasia a Zangarini - continuerà a produrre un po' di tutto: come, in epoca fascista, l'Oleoricina, purgante a base di olio di ricino, sostanza allora com'è noto di facile reperimento e largamente dispensata. Autore di una pubblicazione sulla "scienza del vendere" che lo classifica come l'inventore indiscusso della pubblicità moderna, Arturo Gazzoni viene ricordato anche come pioniere di una delle risorse maggiori di Bologna: il settore del packaging, una sorta di arte dell'impacchettare lanciata nel 1924 su sua commissione per una macchina imbustatrice dell'Idrolitina.
Come sempre veleggiando di bolina fra questa e quella attività, lui, l'ineffabile Zangarini, è intanto approdato ad una delle novità più eclatanti del secolo: il cinema. Le sale a Bologna sono ancora poche, ma la Settima Arte è ormai lanciatissima anche in Italia, per cui il Nostro decide di sfruttare l'onda esordendo come regista e sceneggiatore. Altrettanto strabilianti e suggestivi i suoi film, almeno a giudicare dai titoli, tutti tra il noir e l'horror: Dall'alba al tramonto (1917), L'abbraccio della vergine di ferro (1919), Il mistero dell'uomo grigio, Il cimitero dei giustiziati, La corda al collo (tutti del 1920) e qualcosa di ancor più intrigante come Tra fiumi di champagne (1921). Non mancano, come detto, le sceneggiature (Il fantasma dei laghi, 1921, Frate Francesco, 1927) e addirittura una commedia, Il divino Pierrot, del 1931: salvo quest'ultima, lavori, ahinoi, tutti perduti.
Fra le varie minuzie del caleidoscopico bric-à-brac zangariniano spuntano infine qua e là altri lavoretti chiaramente ideati e confezionati, per così dire, con la mano sinistra tra le chiacchiere e la lettura del «Carlino» al caffè. Uno per tutti il calendarietto per l'anno 1930 distribuito dalle Pasticcerie Zanarini, Sede centrale Via D'Azeglio 34, con tea room, filiale estiva a Riccione e Caffè Pavaglione, "il più elegante e frequentato ritrovo della città". Per questo nido di mondanità il cui nome è lo stesso suo senza una G, Zanga compone terzine di endecasillabi, una per ogni mese dell'anno, regolarmente firmate e intervallate in pagina centrale da due coppie di ottonari di inconfondibile stile idrolitinico:
«Tempo fu che il dio Saturno
in Italia ebbe dimora:
corse a rivi il miele al tempo che Saturnio è detto ancora.
Or che il secolo borghese
sdegna i titoli divini,
tutto che in Italia è dolce
vien chiamato Zanarini».
Ci si chiede dove trovasse tutto quel tempo.
Il Liceo
Come un ricercare a più voci concluso da un tombeau. Eppure anche questo non era tutto. Certo, cose da un'oretta al tavolino, inezie. Piccoli divertimenti pensati facendosi la barba la mattina. Bagatelle. Ma poi c'era anche il «Carlino», a cui contribuiva con costanza, da sempre, un articolo oggi, un elzeviro domani, magari una lettera al direttore di quando in quando. Sempre letto. Sempre apprezzato e stimato. A volte discusso. Fece storia il putiferio che su quelle pagine sollevò nell'agosto del '15, per la precisione il 21, dunque sei giorni dopo i proiettili austroungarici e i glomeruli pesaresi. Il quotidiano felsineo si occupava della nomina del nuovo direttore del Liceo Musicale in sostituzione di Ferruccio Busoni - una meteora nel cielo di Piazza Rossini, e neppure troppo visibile - lamentando che in quell'ormai quinquennale vexata quæstio il Comune non avesse ancora proceduto a una nomina nonostante gli sforzi dell'assessore alla Pubblica Istruzione, professor Mario Longhena. Il Liceo, sosteneva l'anonimo articolista, doveva essere una vera e propria scuola professionale mirata alla formazione di bravi musicisti, scevro da fisime artistiche infondate tipo ricerca "del genio musicale" tra gli allievi, ma soprattutto del "gran nome" per la carica di direttore. Concludendo che in fondo il primato musicale di Bologna era ormai acqua passata, e che tuttalpiù l'unico vanto rimasto era quello di aver avuto di recente una personalità come Martucci in direzione, si esprimevano perplessità sull'offerta fatta a Mascagni - il quale peraltro se ne restava prudentemente al largo - e si facevano voti che dalla questione rimanessero fuori chiacchiere e battaglie da corridoio e da salotto. Il tutto spirante un'atmosfera di provincialismo nettamente percepibile ancor oggi.
Ed ecco l'entrata a gamba tesa di Zangarini, che, ironico fin dal prologo, appunto il 21 scrive al «Carlino» una lettera definita dallo stesso quotidiano "coraggiosa", ma in realtà, perlomeno per l'ingessato ambiente bolognese, al limite del temerario. In essa infatti la "vecchia cicala" (così si presenta Zanga) non si perita di criticare e attaccare un po' tutti: Bologna diventa una "povera città", "un mondo di tradizioni e superstizioni provinciali"; la ricerca del nuovo direttore "logomachie di orecchianti e di incompetenti", una "miseria pettegola e inconcludente", "una malattia di natura isterica" gravata di " furbesca malignità"; mentre la domanda finale è se sarà possibile "rovesciare il castello di superstizioni che intorno al nostro Liceo Musicale hanno costruito il pettegolezzo, la retorica e l'idiozia intellettuale degli sfaccendati". Il suo punto di vista è chiaro ed altrettanto espresso fuori dai denti: il Liceo deve considerarsi a tutti gli effetti una scuola professionale, se non altro perché la figura dell'artista è strettamente legata a quella del buon professionista. Da ciò ne viene che il direttore, questa figura così variamente disputata "dal prudente, ostinato, corrosivo appetito degli aspiranti e [dal] lavorio dei simpatizzanti e degli interessati", dovrebbe essere senz'altro "non tanto esclusivamente uomo di cifre e di iniziative tecniche, da essere sordo alle superiori ragioni dell'arte pura; non tanto artista puro da sdegnare ogni concessione alla vita, quando appunto è alla viva anima delle folle che la musica intende sopra tutto di parlare"; bensì, Zangarini precisa, "un valente amministratore, che sia un po' musicologo, un po' letterato e un po' molto ingegnere, che sappia sfondare i pregiudizi come i muri troppo vecchi, e tenere a bada quella delicata e indisciplinata ruota che nell'ingranaggio si chiama professore di musica".
In tal senso, dopo aver stigmatizzato la ridicola vanità delle "terribili deliziosissime nostre donne, che domandano il direttore simpatico, che si sbandieri per i salotti oziosi e mormoratori, che piroetti, abbondante e spiritoso, nei crocchi di mamme e signorine, ai giorni di quella provinciale e inutile mascherata che sono i saggi finali"; dopo aver fatto notare come un nome celebre alla direzione, una volta esaurita la nomina, sminuisca l'operato del successore, se non altrettanto celebre; e infine, dopo aver decretato che l'opera "non la sa fare, dei nuovi, adesso, nessuno", passa a citare due figure di direttore: in negativo, e demolita ad impietosi colpi di mazza, quella di Giuseppe Martucci, "che sistematicamente mortificava negli scolari le attitudini alla musica drammatica, la tendenza al canto facile, chiaro, espressivo", che mai lui, Zangarini, si rassegnerà "a citare in esempio quale direttore di un Conservatorio italiano di musica", che "per la vita professionale degli allievi e della orchestra cittadina pochissimo [...] fece, né, dato il suo temperamento e i suoi ideali, molto più avrebbe potuto fare"; mentre in positivo quella di Marco Enrico Bossi, "un sommo musicista e un grande animatore e regolatore di studiosi". "In verità", insiste, "se vorremo il direttore del nostro Liceo bisognerà ricostruire un Bossi. Con tutte le varianti che la nostra furbesca malignità vorrà escogitare; ma la stoffa dovrà essere quella".
Gettato in piccionaia con tale irruenza, il sasso provoca un tal volavìa di piccioni che neanche in Piazza Maggiore, coi bimbi a rincorrerli qua e là. Alcuni personaggi, anche illustri (Francesco Balilla Pratella, ad esempio), entrano in lizza, ognuno con la sua proposta e il proprio punto di vista su quella che potrebbe essere la migliore tipologia di direttore, spesso criticando la visione che Zangarini ha dell'ambiente musicale bolognese. Ben pochi si trovano d'accordo con lui. Giacomo Benvenuti, compositore ed ex-alunno del Liceo, il più agguerrito, inizia una vera e propria schermaglia dove la semplice confutazione finisce per sconfinare prima nell'ironia, poi nel sarcasmo, quindi nel piccato vero e proprio, con Zangarini che certo non fa nulla per calmare le acque soffiando anzi sul fuoco con il suo tipico caustico stile. Volano stracci e nomi di possibili candidati: Vittorio Vanzo, Adolfo Gandino, Leopoldo Franchetti, Toscanini, Mascagni, Respighi; si coglie ancora una volta l'occasione per attaccare Wagner e la musica "tedesca", i compositori che ottengono successo al pianoforte e collezionano "tombole" in teatro, il direttore del Quartetto e i direttori tout court. Insomma: di tutto e di più.
Alla fine, e con notevole sollievo, giunge da Palazzo D'Accursio l'habemus papam: la nomina va a Gino Marinuzzi, che resterà in carica per i tre anni seguenti lasciando quindi il posto a Franco Alfano. È il 24 febbraio del 1916: a Bologna sembra quasi che la guerra per il direttore del Liceo Musicale sia riuscita a far dimenticare quella che da nove mesi esatti ormai sta mietendo migliaia di vite, alcune delle quali di studenti del Liceo Musicale.
Un Liceo Musicale che diversi anni dopo vedrà Carlo Zangarini far parte del suo corpo docente con la cattedra di Letteratura poetica e drammatica e, a periodi, anche di Letteratura italiana. Entrato con tale mansione nel 1934, della sua performance non sappiamo un granché, ma non dovette essere straordinaria. Restano tracce nell'archivio dell'odierno Conservatorio che ne dimostrano una certa latitanza annotata nel registro delle presenze con varie motivazioni: malattia, trasferte (da qualche tempo Zangarini gravitava su Milano), impegni vari, spesso con annotazione a margine di mancata giustificazione. Così pure l'elenco delle propine, che mostrano sotto il suo nome quote esigue per lo scarso numero di esami condotti. La sua docenza si conclude con l'anno scolastico 1940-41. Molto probabilmente a causa di una sindrome di origine cardiaca in costante peggioramento che, secondo alcune testimonianze, gli aveva rubato energia insieme alla consueta allegria, ottimismo e convivialità, Zanga abbandona e si ritira alternando ai soggiorni domestici in via Saffi 92 e via Farini 31 quelli sempre più frequenti in clinica, durante i quali continua a collaborare al «Carlino» con una rubrica di ricordi dei tempi andati intitolata «Ore cliniche a Sant'Orsola». La guerra che nel frattempo infuria è ancora lontana, ma non tarderà a colpire anche Bologna.
Il 19 luglio 1943 Bologna è a soli cinque giorni dalla prima importante incursione aerea che, sotto 136 tonnellate di bombe, le costerà circa duecento morti e la distruzione totale di una novantina di edifici. Il giorno seguente cadrà il fascismo, e neppure due mesi più tardi, con l'8 settembre, si aprirà il periodo più buio della nostra storia. A Carlo tutto questo è risparmiato: col cuore sempre più affaticato muore per trombosi all'Ospedale Maggiore alle prime ore di quella mattina, così come riporta in cronaca di Bologna un desolato «Carlino» fra i trafiletti degli esami sostenuti in grigioverde dagli studenti universitari, quello della tragica fine di un ortolano avvelenatosi per errore e le réclame degli spettacoli cinematografici e di rivista, la Compagnia Fineschi-Donati, Totò e Macario. Il «Carlino» continuerà a ricordarlo per tre giorni consecutivi coi rituali "coccodrilli", l'ultimo dei quali, a firma Gaianus, pseudonimo del critico Cesare Paglia, lo celebra come notevole poeta e librettista enfatizzandone la precisione e l'esattezza, ma ricordandone alquanto eufemisticamente anche quell'essere "un po' a modo suo, [...] al punto di non andare sempre d'accordo coi suoi collaboratori musicali". Dalla lettura di questi articoli la sensazione generale è comunque quella di un notevole rimpianto per il personaggio, la sua affabilità, bolognesità e simpatia. Uno degli ultimi esponenti di tempi andati, decisamente più felici dei presenti.
Carlo Zangarini verrà sepolto in Certosa a spese del Comune dopo un funerale seguito da una cospicua folla di amici e colleghi sinceramente affranti. Nel generale cordoglio forse l'epitaffio migliore fu quello dedicatogli dal suo vecchio giornale: «Quale fu lo ricordiamo ed anche quale avrebbe voluto essere, nell'ambizione di quel sensibile artista ch'egli era: padrone della forma, fervido di trovate, derivante dai classici, anche nelle pagine in apparenza più svagate e brillanti, una rara dignità del sentimento e dell'espressione».
Con lui se ne andava tutta un'epoca: come lui forse svagata e a suo modo brillante, in ogni modo molto più attenta al suo rassicurante stereotipo che alla realtà storica. I cui avvenimenti - tragici, clamorosi, epocali - finirono per stemperarne il ricordo insieme a quello dei suoi protagonisti, "Zanga" incluso.
Con Puccini nel West
Nessun libro su Puccini può schivare il nome di Carlo Zangarini, ma nessuno, praticamente, lo affronta sul serio. Citate dunque le monografie italiane scritte da Mosco Carner (1961) e da Michele Girardi (1995), le lettere curate da Giuseppe Adami (1928, 1982) e da Eugenio Gara (1958, 1995), la monografica Fanciulla del West di Mario Rinaldi (Milano, Istituto d'Alta Cultura, 1940), ecco due lavori fondamentali: La Fanciulla del West di Giacomo Puccini, con un saggio di Enzo Restagno (Torino, UTET, 1974) e Puccini and the Girl. History and Reception of the Girl of the Golden West di Annie J. Randall e Rosalind Gray Davis, Chicago, Chicago University Press, 2005. Per il libretto, vale La fanciulla del West di Luigi Baldacci, in La musica in italiano.
Libretti d’opera dell’Ottocento, Milano, Rizzoli, 1997, pp. 253-260. In occasione di spettacoli scaligeri si erano occupati dell'opera Gino Roncaglia (1955) e Renato Mariani (1955 e 1956), mentre un coevo allestimento fiorentino aveva pubblicato Notturni bolognesi di Adone Zecchi, memorie del musicista bolognese sul concittadino Zangarini. Ma lo stesso Zangarini s'era pronunciato sul rapporto: Puccini e la Fanciulla del West, in «Propaganda musicale», 1930, nn. 1-5.
Per la faccenda delle antiche nomine cfr. Laura Fusaro, Il Liceo musicale di Bologna. Quando il Carlino sollevò il vespaio, Youcanprint, 2020. Per la storia dell'epoca a Bologna cfr. Roberto Scannavini, La nascita della città post unitaria 1889-1939, in Storia illustrata di Bologna, a cura di Walter Tega, Bologna, AIEP, 1990, vol. IV, pp. 301-320; La formazione della città moderna 1937-1962, Ivi, pp. 320-340. Per la cultura letteraria coeva cfr. infine Gabriele Bonazzi, Le Torri e le Lettere. L'attività letteraria a Bologna dalle origini ai contemporanei, Bologna, Pàtron, 2018.
Guido Mascagni
Zangarini: una fantasia petroniana
in Jadranka Bentini e Piero Mioli (a cura di)
Maestri di Musica al Martini. I musicisti del Novecento che hanno fatto la storia di Bologna e del suo Conservatorio
Bologna, Conservatorio «Giovan Battista Martini», 2021