Filippo Ivaldi

Filippo Ivaldi (Alessandria d’Egitto, 10.XII.1874 - Faenza, 28.XII.1943).
Giusti dati di vita
È la storia di un pianista, quella che vogliamo raccontare qui. Di un pianista italiano, vissuto durante anni in cui per la prima volta dopo oltre un secolo il nostro paese sembrava dare i primi sguardi alla musica non operistica e volersi aprire al mondo europeo del concertismo. Sono anni particolari, quelli nei quali vive e lavora Filippo Ivaldi: vi nascono, vivono e operano i musicisti dell’Ottanta, i grandi e celebri Respighi, Pizzetti, Casella, Malipiero, ma anche i tanti musicisti e strumentisti che hanno contribuito col loro impegno a riportare la musica da camera o da concerto nelle sale e nei teatri del nostro paese, facendo quindi aggirare, con il loro impegno assiduo, un gap quasi secolare. Si tratta di una generazione di esecutori e didatti che contribuì a far recuperare prestigio al pianoforte, allargandone gli orizzonti oltre all’accompagnamento dei cantanti o al dilettantismo, per trasformarlo in un potente mezzo di comunicazione e in un protagonista della programmazione concertistica. Erano artisti coraggiosi, che fondarono società e rassegne di appuntamenti da camera e solistici, e che nel loro progetto avveniristico coinvolsero critica e giornali.
La storia che raccontiamo si svolge a Bologna, anche se inizia molto lontano da qui, ad Alessandria d’Egitto, dove si erano trasferiti per lavoro i genitori veneziani di Filippo Ivaldi, che nasce nella metropoli il 10 dicembre 1874. Rimpatriato giovanissimo, studia pianoforte a Venezia con Agostino Dal Vesco all’allora Scuola musicale "Benedetto Marcello", per poi trasferirsi a Bologna, dove i registri del Liceo lo danno allievo di composizione di Busi e Dall’Olio dal 1895 al 1897, e nel 1898 allievo di “Alta Composizione” nella classe di Martucci. Se i documenti del Liceo non lo collocano mai in una classe di pianoforte che noi oggi chiameremmo principale, il Dizionario dei musicisti di Carlo Schmidl lo cita nella classe di Mugellini: che allora, tuttavia, risultava docente di Pianoforte B, la cattedra erede dell’antico pianoforte "numerico" ovvero di accompagnamento, e quindi è probabile che Ivaldi abbia incrociato il maestro nel corso dei suo studi di composizione. Questa però è solo la prima incongruenza che nasce tra le fonti e i due dizionari enciclopedici (Schmidl e DEUMM) che riportano qualche notizia sul nostro pianista. La seconda infatti riguarda l’anno del diploma in pianoforte, indicato nel 1908, quando invece, come vedremo, Ivaldi era già docente da anni docente.
Nel 1898 Ivaldi inizia la sua carriera di concertista, che va inquadrata all’interno del movimento di attenzione per la musica strumentale europea promosso a Bologna dalla Società del Quartetto. Fin dagli anni '80, infatti, l'associazione propone in città i classici del repertorio sinfonico, cameristico e solistico strumentale europeo, da Bach a Mozart, da Beethoven a Schumann a Liszt. Su quella scia, anche l’antica e gloriosa Accademia Filarmonica comincia a programmare concenti cameristici, dove Ivaldi appare come solista e come accompagnatore di cantanti o strumentisti. Venuto meno l’impulso fornito dalla Società del Quartetto, nel 1903, assieme ai giovani colleghi Bruno Mugellini e Guido Alberto Fano, il nostro protagonista dà vita ad una nuova associazione di concerti di musica da camera, i "Concerti Mugellini". Alla carriera di camerista si affianca anche quella di solista, in recital di grande impegno, e proprio a seguito del recital tenuto presso la Filarmonica, nella riunione accademica di mercoledì 17 maggio 1903 l’antico sodalizio presieduto da Luigi Torchi approva "su proposta del cav. Annibale Bertocchi per plauso l’iscrizione del M. Prof. Filippo Ivaldi di Alessandria d’Egitto nella classe dei pianisti".
Dal titolo di professore partiamo per segnalare la terza incongruenza tra documenti d’archivio ed enciclopedie, che riguarda la data di inizio dell’insegnamento del pianoforte presso il Liceo bolognese. Lo Schmidl, in questo puntualmente replicato dal DEUMM, colloca la sua presa di servizio nel 1911, mentre l'anno esatto è il 1901 (suffragato da tutti i documenti in nostro possesso, sia quelli del Liceo che quelli del Comune, che provvedeva all’assunzione e pagava il docente), quando si istituisce una cattedra di pianoforte distinta dalle altre per il nome dell’insegnante. E che il prof. Ivaldi fosse già in servizio come docente già assai prima del 1911 lo testimoniano le partecipazioni di allievi della sua classe a eventi celebrativi, come quello per il centenario del Liceo il 3 aprile 1905, e ai saggi scolastici di fine anno, di cui resta documentazione a partire dallo stesso 1905. Tra questi segnaliamo quello del 2 giugno 1907, nel quale gli allievi di Ivaldi propongono movimenti dei concerti di Mozart e Rubinštein (con orchestra) e la Rapsodia ungherese n. 6 di Liszt. Ivaldi rimane docente a Bologna fino all’anno scolastico 1929-30, e con lui studieranno musicisti poi illustri come Emilio Russi, Antonio Belletti, Guido Agosti, Franco Ferrara e Francesco Molinari Pradelli. Da quella esperienza vedranno la luce la revisione del celeberrimo Metodo pianistico di Lebert e Stark e una guida sullo studio del pianoforte. Lasciato il Liceo bolognese, Ivaldi diventerà direttore della nuovissima scuola di musica "Vassura Baroncini" di Imola, incarico che terrà fino al 1942. Morirà a Faenza il 28 dicembre del 1943.
Il fondo, il manualetto, il gran metodo
In mancanza di registrazioni che ci possano parlare dello stile interpretativo (e anche di fonti, se si escludono i pochissimi programmi di sala disponibili), un primo e grande aiuto a comprendere le scelte di repertorio è il Fondo Ivaldi conservato nella biblioteca del Conservatorio di Bologna. Si tratta della tipica biblioteca di un pianista che dà informazioni sulle preferenze di repertorio, ma anche, come vedremo più avanti, sulle scelte didattiche. Vi compaiono tutti i grandi della letteratura pianistica, dalle sonate di Scarlatti (nella revisione di Alessandro Longo) ai concerti per pianoforte di Beethoven, dalla quasi integrale di Chopin a quella di Mozart, Haydn e Mendelssohn, dalle pagine degli autori italiani dell’Ottocento e del primo Novecento (da Golinelli a Fano, fino alle revisioni e trascrizioni da Stravinskij di Agosti) a quelle di autori stranieri che non ci si aspetta come Riemann, Reinecke e Reger. C’è poi tutto il Bach che era possibile reperire a inizio '900, e quasi tutto nelle trascrizioni e revisioni, in particolare di Busoni.
Se il Fondo Ivaldi contiene quasi 2.000 spartiti, assai più ridotto, come dicevamo, è il numero rimastoci dei programmi dei suoi concerti che, nel trasferimento della biblioteca da casa Ivaldi al Liceo, forse non si ritennero materiale degno di conservazione. Significativi sono alcuni appuntamenti all’Accademia Filarmonica, come quello del 18 febbraio 1898 nel quale, tra arie di Verdi e di Donizetti e prima dell’esecuzione in forma di concerto della Serva padrona di Pergolesi, Ivaldi eseguì brani che col mondo del melodramma poco hanno a che fare: lo Scherzo in si min. di Chopin, la Barcarola op. 64 di Martucci e lo Studio op. 23 di Rubinštein. Se pure occasionale, è uno sguardo su un mondo sconosciuto ai più in quel momento, e che assume in quel contesto ben più del significato di un entracte. Interessanti sono le apparizioni di Ivaldi al Teatro Comunale, a cominciare dal concerto del 6 aprile 1900 (replicato nel giugno del 1903) in cui assieme a Fano e Mugellini eseguì (al pianoforte) il Concerto per tre clavicembali di Bach sotto la direzione di Giuseppe Martucci. In quello del 3 marzo 1911 inserì la Fantasia op. 80 di Beethoven e quello del 14 maggio 1917 il Concerto n.1 di Chopin e il Concerto n. 2 di Martucci. L’ultima data di Ivaldi nella sala del Bibiena è l’11 maggio 1927: finalmente in un recital, con musiche di Scarlatti, Beethoven, Schumann e Chopin.
Recital solistico è anche quello all’Accademia Filarmonica del 9 maggio 1905 e che testimonia, in ben tre parti, la vastità del repertorio del nostro concertista. Il lunghissimo programma si apre con la Fantasia cromatica e fuga di Bach, prosegue con l'Appassionata di Beethoven, continua con un bel florilegio di autori del Settecento italiano e si chiude con alcuni capolavori del grande Romanticismo di Chopin, Schumann e Liszt. Non possiamo, infine, dimenticare le apparizioni di Ivaldi nei “Concerti Mugellini”, nel 1903, nel 1904 e nel 1906, sempre però in veste di camerista: oltre a pagine di Beethoven e Saint-Saëns, vi spiccano alcune delle pagine vocali, "delicatissime di concezione e di fattura, vivamente gustate dal pubblico e cordialmente applaudite" come scrive una cronaca dell’epoca.
Forte di una ormai decennale esperienza didattica, Ivaldi decide di pubblicare un manualetto che, come un prontuario, consiglia le scelte sulla tecnica e sul repertorio per ciascuno dei nove anni previsti per il corso di pianoforte. Attenzione, tuttavia: Sull’insegnamento del pianoforte (Bologna, Zanichelli, 1913) non è una serie di tabelle ma una guida ragionata, dove ogni scelta, anno per anno, viene motivata con le ragioni della didattica e, soprattutto, della musica. Prima di iniziare il percorso, Ivaldi si occupa dell’insegnante, che deve essere un musicista, e non solo un tecnico, e deve mirare "esclusivamente, egli artista, a creare artisti e non dilettanti di cattivo gusto, quali escono spesso da scuole private e pubbliche". Dopo questa premessa, l'autore afferma di volersi occupare delle tre parti che debbono formare l’insegnamento: parte tecnica, parte di tecnica applicata, parte artistica e musicale, da curare in parallelo sin dal primo anno di corso, perché "il maestro deve sviluppare sin dall’inizio in egual maniera la tecnica e la musicalità".
Se per il primo anno l’attenzione di Ivaldi è posta quasi esclusivamente sull’impostazione del giovane discepolo, attraverso la spiegazione del proprio metodo e la confutazione di quelli degli altri, già per il secondo si propone una piccola scelta di pagine che mirano anche alla formazione di un gusto artistico. Nel terzo anno inizia un percorso tra semplici brani polifonici e grandi autori, che possono essere scelti dalle due raccolte del Villanis, L'arte del clavicembalo (1901) e L’arte del pianoforte in Italia da Clementi a Sgambati (1907), mentre nel quarto inizia il cammino su Bach, per il quale Ivaldi consiglia le revisioni di Mugellini, sebbene più scolastiche che artistiche, e quelle di Busoni, "risultato invece di un acuto ed elevatissimo ingegno". Se per il quinto anno si punta ancora prevalentemente sulla tecnica, tra gli Studi di Cramer e il Gradus di Clementi, per il sesto è previsto il primo incontro con Beethoven, dopo quelli con Haydn e Mozart, e con Chopin. Circa Chopin "ho il dovere di raccomandare all’allievo di leggere molto per formarsi una esatta opinione sul suo carattere di uomo e di artista e di conseguenza sull’indole e sulla sostanza delle sue creazioni, per non dare, di queste, interpretazioni false, quali sentiamo ogni giorno". Non manca il Clavicembalo ben temperato di Bach, "musicalmente e contrappuntisticamente l’opera più grande e più profonda, più altamente e puramente musicale che sia stata creata".
Gli studi di Liszt, del quale "l’allievo deve conoscere la vita e gli ideali che lo hanno sempre guidato [...] perché non è solo un semplice virtuoso della tastiera, come in tutta Italia ancora si crede", arrivano solo all’ottavo anno, quando vengono inseriti anche autori tra i "moderni e modernissimi viventi". Nel nono e conclusivo anno, infine, vengono affrontati tutti gli altri grandi autori romantici, senza mai dimenticare il grande Bach. Nelle cui trascrizioni di Busoni "il tecnicismo può essere presentato attraverso forme moderne, non solamente senza danno alle composizioni, ma anzi con vantaggio per esse, che si trovano così ingrandite, attraverso queste forme nuove, a veri lavori d’arte geniali e poderosi, egualmente in carattere con la musica sempre tanto nuova e ardita di Bach". In ultimo, va sottolineato come il testo sia scritto in prima persona: Ivaldi utilizza sempre il pronome "io" nel tracciare il percorso, per ribadire ogni volta come il testo non sia un manuale teorico ma il frutto di una vera esperienza didattica, precisa e personale.
Chiudiamo il discorso non con un’opera originale, ma con una revisione, che si inserisce perfettamente all’interno del quadro didattico appena tracciato: Lebert & Stark: Gran metodo teorico-pratico per lo studio del pianoforte, Milano, Ricordi, 1919. Il metodo, in quattro volumi pubblicati a Stoccarda nel 1858 da Siegmund Lebert e Ludwig Stark, godeva di grande notorietà essendo ritenuto, "sebbene non modernissimo, uno dei migliori [per sviluppare nell’allievo] sia la parte tecnica che quella musicale" come scrive Ivaldi stesso. Nel suo insegnamento, pur rifiutando sia la teoria del meccanismo sia il guida-mani, il maestro lo adottava perché nelle linee generali la sua progressività andava d’accordo col programma seguito al Liceo Musicale di Bologna, essendo i due redattori "insegnanti di valore e di grande pratica". Se il primo volume si occupa delle cinque dita e si completa con piccoli pezzi a quattro mani, il secondo si dedica alle scale e agli arpeggi, ritenuti da Ivaldi di grandissima importanza. Tuttavia, pur nell’apprezzamento generale, il Gran Metodo non è adottato acriticamente: il terzo volume (dedicato al perfezionamento sulle scale "in maniere svariatissime" e sugli arpeggi) e il quarto volume non figurano infatti nei suoi programmi, anche se questo "non significa che essi siano inutili". Gli esercizi e gli studi possono essere recuperato anche in altri autori e gli studi originali non «sembrano consigliabili perché l’allievo troverà in Henselt, Chopin, Liszt e Alkan tutto quanto può bastargli per consolidare il suo gusto e il suo meccanismo».
À la recherche
Se trascuriamo i due brani manoscritti per orchestra (Lento e tranquillo e Ouverture) che, risalendo agli ultimi anni '90, sono evidentemente esperimenti all’epoca degli studi di composizione, il catalogo compositivo di Ivaldi comprende un pezzo per pianoforte, la Piccola Suite op. 2 (edita negli anni '10 da Bongiovanni), e tre raccolte di musica vocale da camera: nella prima, op. 1, si trovano poesie di Ada Negri (Nevicata e Bacio morto, edite da Tedeschi); nella seconda, op. 3, poesie di Giovanni Pascoli (Lontano, Il passato, Notte dolorosa, La luna tranquilla); nella terza, op. 4, poesie di Enrico Panzacchi (Risveglio, Che mai dicevi a la candida luna). Di tutt’altra rilevanza invece sono i testi didattici, sui quali ci siamo già soffermati. A cominciare dal fondamentale saggio Sull’insegnamento del pianoforte” (1913), specchio di un nuovo approccio professionale allo strumento, adatto alle esigenze di un nuovo concertistico in Italia e confermato dalla revisione del Lebert-Stark del 1919.
Redigere invece una bibliografia, se pur breve, su Filippo Ivaldi costituisce per lo studioso un’impresa analoga circa un oscuro liutista di epoca rinascimentale. Un’affermazione forse paradossale, dal momento che il nostro pianista vive e opera in un’epoca nella quale già sono diffusi mezzi di comunicazione moderni come la radio e il disco, lavora in un contesto straordinariamente importante per la diffusione della musica come il Liceo Musicale di Bologna e ha svolto la sua attività artistica come concertista di fama. Sembra paradossale, ma non lo è. Perché, ad oggi, non esistono saggi specifici su di lui, e le attuali enciclopedie musicali più accreditate (come New Grove, MGG) non lo nominano nemmeno, così come fa il Dizionario Biografico degli Italiani. Il suo nome si ritrova sul DEUMM, che gli dedica ben otto righe più due sul catalogo. Otto righe, tuttavia, direttamente mutuate e riassunte dalla mezza paginetta contenuta nel primo volume del Dizionario universale dei Musicisti di Carlo Schmidl, edito e riedito dal 1887 al 1938 e contenente informazioni più ampie e interessanti con gli errori già segnalati.
Per saperne di più occorre quindi compiere una paziente operazione "a tenaglia", utilizzare le fonti e giocare di sponda su tre lati di un immaginario biliardo. Da un lato è inevitabile cominciare dalla città nella quale Ivaldi ha operato più a lungo, dal contesto culturale e didattico della Bologna musicale tra i due secoli, un panorama ricco di fermenti e di novità, in particolare nell’ambito della nuova musica strumentale presentata in concerto. Partendo dalle fonti, allora, non si può non citare il testo preparato da Corrado Ricci nel 1897 sulla Storia della Società del Quartetto, mentre a un quadro più generale di quella Bologna soccorrono i saggi di Lamberto Trezzini, Claudio Santini e Piero Santi presenti nei Due secoli di vita musicale - Storia del Teatro Comunale di Bologna (1966, 1987, 2014). La seconda sponda che possiamo toccare è quella del mondo pianistico italiano tra '800 e primo '900: è utile iniziare dai libri di Piero Rattalino, tra tutti Le grandi scuole pianistiche edito da Ricordi nel 1992. Tuttavia, questo filone storiografico finora trascurato sta cominciando poco per volta a interessare studiosi e ricercatori, e la grande quantità di documenti a disposizione e mai compulsati si sta rivelando un vero e proprio terreno di caccia. Ecco allora le tesi di dottorato, come quella di Vitale Fano (per il Dipartimento di Storia delle Arti Visive e della Musica della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Padova) su Il pianoforte e la sua musica nell’Italia post-unitaria, che dà anche un'interessante panoramica sulle società di concerti italiane del periodo. Ma ecco anche gli articoli su stagioni specifiche, come quello di Carlo Lo Presti dedicato ai Concerti Mugellini e la vita musicale all’inizio del Novecento pubblicato sulla «Rivista italiana di Musicologia» (XLIX, 2014, pp. 105-174). A proposito, poi, di concerti, il terzo filone riguarda una ricerca ancora tutta da effettuare: quella sui programmi dei concerti eseguiti da Ivaldi a Bologna, e non solo, con le relative recensioni apparse sui giornali e sulle riviste, e da noi solo parzialmente recuperati per questo saggio. È un itinerario che abbiamo solamente sfiorato qui, ma che sicuramente può riservare sorprese e soprattutto può illuminarci su un periodo cruciale storia musicale italiana nei cinquantennio che va tra la fine del secolo XIX e la Seconda guerra mondiale.
Maria Chiara Mazzi
I duemila spartiti Ivaldi
in Jadranka Bentini e Piero Mioli (a cura di)
Maestri di Musica al Martini. I musicisti del Novecento che hanno fatto la storia di Bologna e del suo Conservatorio
Bologna, Conservatorio «Giovan Battista Martini», 2021