Francesco Molinari Pradelli

Francesco Molinari Pradelli (Bologna, 6.VII.1911 - ivi, 7.VIII.1996).
Maestro concertatore
Una città, Bologna, una strada, via Rizzoli, un negozio, il salone-profumeria paterno attiguo alla storica sede dell'editore Bongiovanni e, poco più in là, una scuola musicale di grande prestigio, il Liceo Musicale poi Conservatorio "G. B. Martini". In questi luoghi vede la luce e cresce artisticamente uno tra i più famosi direttori d'orchestra del '900. "Il profumo di Coty e le melodie del Tannhäuser e del Parsifal sono le prime cose che ho respirato nella mia vecchia casa", usava dire il maestro. Figlio di Giuseppe, un fervente wagneriano (cosa più che mai legittima a Bologna, nota fra l'altro per avere impartito il battesimo alla prima italiana del Lohengrin), Francesco Molinari Pradelli nasce il 6 luglio 1911 (la notizia del giorno esatto, contro la vulgata che cita il 4, si deve alle ricerche di Luigi Verdi) nel segno del Cancro, il segno della determinazione: al momento è solo Molinari, cognome della madre Amelia, perché i genitori non sono sposati in quanto il padre Pradelli è sposato-separato da un'altra persona. Precocemente votato alla musica, il giovane vanta un'egregia formazione musicale al Liceo musicale con insegnanti come Melchiorre Rosa per il solfeggio, Filippo Ivaldi per il pianoforte, Cesare Nordio per la composizione e la direzione d' orchestra. Ben presto, diplomato in pianoforte nel '27, coglierà l'occasione di tuffarsi nella vita musicale bolognese, alternando con disinvoltura il podio alla tastiera e mietendo i primi successi, in ambito scolastico (nell'"esperimento" ovvero saggio finale del 1930 dirige la sinfonia delle Astuzie femminili di Cimarosa), all'interno di altre istituzioni cittadine e anche extra muros.
Sarà poi la volta di Siena, al corso di perfezionamento; quindi Roma, al corso di perfezionamento diretto a S. Cecilia da Bernardino Molinari, decano dei didatti. Un'altra esperienza su11a quale pioveranno le prime importanti attestazioni di stima nei confronti dell'astro nascente. A proposito del concerto di fine corso (siamo nel 1938) nel quale l'allievo si misura con Beethoven, Čajkovskij, Martucci e Wagner, la stampa saluta un direttore di sicuro avvenire che abolisce il leggio dimostrando una volontà e sicurezza di intuito veramente eccezionale. Dopo l'apprendistato romano il direttore in erba è pronto a lanciarsi in volo sull'onda de] vaticinio di Toscanini, ma a spianare la strada del successo aveva contribuito fin dall'anno precedente l'esecuzione in forma di balletto di Shéhérazade al "Verdi" di Trieste, seguiti dall'Elisir d'amore al Corso di Bologna. All'esperienza sotto la guida di Bernardino Molinari, atta a far maturare, accanto alla perspicacia tecnica, una sempre maggior consapevolezza interpretativa, segue negli anni '40 una nutrita serie di concerti romani, annoverando tra i solisti Arturo Benedetti Michelangeli e Wilhelm Kempff. Ferma restando la capitale il punto di riferimento del direttore divenuto ormai il beniamino del pubblico romano, l'area d'azione si estende, entro l'arco del quinto decennio, a Milano, Pesaro, Trieste, Venezia, Bologna, Firenze, in programmi nei quali ai più frequentati Beethoven, Brahms, Čajkovskij, Wagner, si affiancano spesso e volentieri Martucci, Mozart, Rossini, Verdi, Ljadov, Franck e i contemporanei Rocca, Zandonai, Rossellini, Kodály, Roussel, non senza particolari predilezioni, come attesta il concerto interamente brahmsiano di Trieste. Anche la compagine dei solisti si amplia con Backhaus, Mazzacurati, Busch, Principe, Mainardi, Cillario, Vidusso, mentre la critica non si mostra avara di elogi nei confronti dell'interprete colto, sensibile, di facile comunicativa. E proprio a lui toccherà il compito, assieme a Paul Baumgartner, di solennizzare la riapertura del Comunale di Bologna nell'aprile del 1946 con un programma diviso tra Beethoven e Brahms al cui proposito Adone Zecchi parlerà di un "direttore di nascita, di razza, di istinto".
Il mondo del teatro, già sperimentato nell'Elisir d'amore bolognese e nell'Amoroso furfante di Ugo Rapalo (Bergamo, 1941), si schiude nuovamente grazie all'esecuzione del repertorio: Rigoletto (Milano, 1946), La favorita (Venezia, 1947), La sonnambula (Venezia, 1947), Tosca (Trieste, 1947); e via via compaiono all'orizzonte I quattro rusteghi e Boris Godunov (Palermo, 1948), senza dimenticare la tournée ungherese dell'anno successivo (Boris, Traviata e Simon Boccanegra). Ma il passo decisivo viene compiuto con la Walkiria veronese (1950), coronamento artistico dell'educazione wagneriana ricevuta in famiglia tanto che a dire della stampa il trentanovenne maestro si muove sulle orme di Bruno Walter. Di qui in poi recite e concerti si susseguiranno in patria e all'estero, incontrando accoglienze lusinghiere ed entusiastiche. Quanto alla geografia estesa in longitudine e latitudine, possiamo far nostra la simpatica frase di Eugenio Riccomini:
«per anni, per molti anni Francesco Molinari Pradelli ha vissuto con la valigia pronta in anticamera. La sua attività di direttore d'orchestra lo trascinava da un capo all'altro d'Europa e d'America: dal Colón di Buenos Aires al Metropolitan di New York (quello vecchio tra Broadway e la trentanovesima), dal San Carlo alla Scala, dai Teatri di Parigi, di Londra e di Mosca al Regio di Parma e al nostro Comunale. Lo si vedeva di rado, allora. E noi, giovani apprendisti della storia dell'arte, gli si invidiava un poco quella sua esistenza vagante e cosmopolita».
Ma Bologna non è solo un trampolino di lancio, è soprattutto il luogo nel quale il maestro farà frequentemente ritorno per ritirarsi tra le pareti domestiche e per salire sul podio del suo teatro, dando vita, dal 1938 al 1982, a 33 concerti sinfonici e 28 realizzazioni operistiche. Percorrendo a volo d'uccello il lungo itinerario artistico balza all'occhio l'intersecarsi di svariati elementi in ordine alla qualità degli spettacoli, al successo1 anche personale, ai puntuali riscontri della stampa. Cose del resto prevedibili in una personalità di tal fatta, responsabile di risultati non certo frutto di pure coincidenze. Indimenticabili sono appuntamenti scaligeri come la "prova non facilmente eguagliabile" (Courir) del Guglielmo Tell (1965, Guelfi), della Norma (1974, Caballé) portata anche a Mosca, della "splendida serata" (Abbiati) con il violinista Franco Gulli (1967); né sono da meno le frequenti esibizioni areniane che videro Molinari Pradelli ospite prediletto, spina dorsale di rappresentazioni ritenute le migliori della stagione, frutto della perfetta convergenza tra cast d'eccezione e il lodatissimo direttore: Norma (1957), Carmen (1961), per non dire della Turandot (1969) o do una Forza del destino (1975 "da antologia" (Isotta). E poi le sei stagioni consecutive all'Opera di Vienna. Due titoli per tutti: Un ballo in maschera (1959, Di Stefano) e Andrea Chénier (1961, Vickers). Ma vanno considerati anche gli anni americani nel corso dei quali, a suo dire, il direttore bolognese ebbe le più grandi soddisfazioni. Prima a S. Francisco con ripetute presenze, sette titoli in poco più di un mese, sottolineate da cronache a dir poco esaltanti: a emergere come una stella, si scrisse, non è stato un cantante, ma un direttore. E dal 1966 in avanti toccherà al Metropolitan di New York invitare il Nostro per otto stagioni, durante le quali spicca il favoloso allestimento del Don Carlo (1972, Corelli); al Colón di Buenos Aires e al Municipal di Rio de Janeiro; ai maggiori teatri italiani, nessuno escluso. Il tutto inframmezzato qua e là da concerti alla guida delle principali orchestre italiane e straniere, a volte con nomi di spicco nel campo del solismo internazionale da Zino Francescatti (Venezia, 1951) a Ida Haendel (Francoforte, 1961). L'intensa carriera, anche discografica, sarà portata avanti fino al 1984, coronata da insigni onorificenze quali la nomina a membro dell'Accademia Nazionale di S. Cecilia e l'Archiginnasio d'oro del Comune di Bologna. Il resto della vita di Francesco Molinari Pradelli riguarda solo l'uomo, precocemente invecchiato e sempre meno presente a sé stesso e agli altri: pur nell'ammirazione dell'intero mondo della musica, il maestro che s'è ritirato nella splendida villa con parco alle porte di Bologna, muore il 7 agosto del 1996. Numerosi, al momento e in seguito, i ricordi, le celebrazioni, i riconoscimenti, le lezioni pubbliche, fino a due lapidi apposte sulla facciata della casa natale in via Guido Reni, a Bologna, e sul fianco del Teatro Comunale in largo Respighi, e all'intitolazione di una sala nell'Accademia Filarmonica bolognese che lo ebbe socio illustre.
La mano di Verdi
Sono queste le qualità che fanno di lui il direttore per antonomasia, il vero signore signore della bacchetta che domina l'orchestra con rara padronanza, imponendole una severa disciplina e perciò meritando la stima degli strumentisti. Basta un cenno perché tutti afferrino al volo la minima intenzione. Ne sortisce il concertatore le cui doti istintive si sposano con l'approfondi mento della partitura, dando luogo a interpretazioni che durano nel tempo, senza calcare la mano ma anche senza le classiche mezze misure. Esistono alcune fotografie che ritraggono il maestro mentre dirige in età avanzata il Requiem di Verdi, dando l'impressione che gli anni non abbiano tolto alcunché ai significativi volteggi della bacchetta, specchio fedele di precise indicazioni interpretative.
A sospingere il giovane concertatore verso l'opera fu stata un'autentica vocazione. Fin dal primo approccio nacque un giusto e forte interesse per l'intima relazione tra buca e palcoscenico; e a tale proposito non lascia certo indifferenti i1 fatto che in tempi nei quali imperavano voci eccelse, per altro non immuni da forti dosi di divismo, Molinari Pradelli abbia saputo imporre pari dignità al mondo degli strumenti rispetto a quello del canto. Infatti, malgrado il furoreggiare sul proscenio di Tizio o di Caio, l'ultima parola spettava sempre a lui. Per esempio, mal sopportava che gli applausi frenassero il flusso dell'opera: a riprova di tale convinzione potremmo ricordare la coda di "La donna è mobile" con Alfredo Kraus (Trieste, 1961), eseguita senza alcuna interruzione, ad onta degli scroscianti battimani indirizzati all'acclamatissimo e pur meritevole interprete, Analogamente dicasi per il finale secondo del Sansone e Dalila (Napoli, 1959), ove i1 pubblico che sembrerebbe non avere orecchi che per Mario Del Monaco, travolgendo di ovazioni l'acuto del celebre tenore, viene fronteggiato dalla potenza e dalla granitica compattezza di un'orchestra decisa a ottenere la propria rivalsa.
Ed ora, alcuni brevi approfondimenti relativi alla discografia operistica ufficiale (compresa qualche registrazione dal vivo). Circa Verdi, ecco il Macbeth del Covent Garden (1960, ora in CD), avvolto tra le spire di un fatalismo impenetrabile. Sennonché il direttore distingue bene la realtà dal mistero, specie in relazione al ruolo delle streghe brancolanti tra la bassezza del fatuo canterellare, e la dignità del rapporto con le forze ultraterrene. E sempre su un sostrato shakespeariano vibrante di fiammate improvvise e di iridescenze spettrali. Non a caso la melodia del sonnambulismo ne esce più allucinata che melodrammatica, come da istruzioni verdiane sull'ombra che cammina e sulla figura cadaverica puntualmente seguite. Della trilogia popolare il maestro sforna due modelli di equilibrio, per la scelta dei tempi, il dosaggio delle sonorità e la temperatura drammatica. Rigoletto si basa innanzitutto su un protagonista più risentito che iperattivo, più afflitto che determinato e pronto all'azione. Basti pensare al monologo "Pari siamo", sospeso tra il respiro della notte e l'incontro con Sparafucile, e al suo sfociare nel duetto: un tocco di tenerezza, un guizzo di luce viva tra lo slancio degli archi e l'elasticità dei fiati. Anche i propositi di vendetta non hanno nulla del precipitoso ma piuttosto del meditato, come stanno a dimostrare la compattezza e la signorilità del finale secondo, in piena sintonia con la classe del conte di Monterone che ancora sovrasta la scena: quella di Rigoletto è una reazione sdegnosa ma non furente. Quanto al resto, circa una il preludio (efficacissimo nella malaugurante progressione cromatica e nel successivo motivo del dolore, inesorabile ma non chiassoso) e l'accompagnamento verdiano in genere calzano perfettamente i rilievi di Paolo Gallarati: "l'accompagnamento orchestrale non è mai meccanico: mima, piuttosto, la pulsazione di un organismo vivente".
Dall'approccio con la Traviata scaturisce un'opera lineare che procede per gradi, senza sbalzi, senza sbilanciamenti e tantomeno sconfinamenti. La tensione, più che farsi evidente, resta il più delle volte implicita. Basta ricordare la nobiltà di accenti del finale primo, l'infinito addio al passato (con quell'oboe così esitante e così ricco di risonanze elegiache), i tratti eleganti dell'aria del baritono (il cui piglio un po' sornione e malizioso si coniuga con il velluto della voce di Aldo Protti), le feste che splendono di luci, seppure immuni da qualsivoglia concessione alla spettacolarità e sempre funzionali alla dimensione cameristica del capolavoro verdiano, il commosso concertato nel quale si dispiegano i singoli sentimenti. Un'importanza capitale riveste l'incisione della Forza del destino, capace di stendere la propria ombra sulle successive performances discografiche che si troveranno immancabilmente a dover fare i conti con questo precedente di lusso. Molinari Pradelli si concentra sui diversi registri espressivi, creando efficaci contrasti tra la trasparenza delle pagine più intime e la densità di quelle più squillanti. Ottima l'esecuzione della sinfonia, capace di prefigurare efficacemente i diversi motivi di interesse connaturati all'opera.
La Bohème di Leoncavallo
Dunque, equilibrio, continuità, coerenza in Verdi. Restando in Italia ci si imbatte nella Giovane Scuola e nei suoi membri, primo fra tutti Puccini. Quando si parla di Puccini il pensiero corre immediatamente alla Bohème di cui Molinari Pradelli offri svariate interpretazioni (fra queste lo storico allestimento reggiano del 1961 con Luciano Pavarotti debuttante e l'edizione discografica di indubbio pregio), senza tuttavia tralasciare l'omonimo titolo di Ruggero Leoncavallo. Pertanto apriremo una parentesi, onde rendere giustizia a un lavoro inopinabilmente adulo nell'oblio: l'attenta lettura effettuata al S. Carlo (1958), rimasta impressa nella memoria dello scrivente grazie a una ripresa radiofonica, mette in giusta luce il carattere composito di un'opera vicina, ben più della consorella, allo spirito di Henri Mürger, quella bizzarra fonte letteraria che pone in rilievo l'allegria un tantino chiassosa, le situazioni agrodolci, gli sprazzi di innocente felicità e il loro dileguarsi come ombre vagabonde, ben oltre gli amori di Mimì e Rodolfo che sono invece il perno dell'opera pucciniana. Il direttore insomma ritrova un Leoncavallo alquanto mutevole, un musicista del resto a lui ben noto e peraltro approfondito nella preziosa incisione dei Pagliacci. Cosicché, nel coordinare con gusto e disinvoltura la frammentarietà degli spunti che affollano il palcoscenico e che brulicano in orchestra l'indovinato gioco interpretativo ci svela, tra impeti di gioia, ansie incontenibili soffi di malinconia, l'eterno destino dell'uomo, còlto così come lo avrà probabilmente sentito Leoncavallo nel corso della sua avventura creativa. Tanto per entrare nello specifico, tra le cose migliori affiora la romanza di Marcello "Io non ho che una povera stanzetta", ove se l'operista appare generoso di fantasia il direttore non è certo da meno, assecondando le accensioni tenorili tramite quelle folate orchestrali che aderiscono alla voce per sottolineare la semplicità dei sentimenti. E che dire della morte di Mimi, tanto intrisa di crepuscolare evanescenza? Tirate le somme, ne esce un Leoncavallo che si prende la rivincita.
Ma parlavamo di Puccini. Ecco una Manon Lescaut vissuta sul filo labile di eventi e situazioni: le galoppate della fantasia, l'incrinarsi e l'infrangersi di ogni certezza, il peso delle avversità. In pratica, la fremente storia di una creatura destinata a finire in terra inospitale, tra aride sterpaglie. Mirabile la vibrante conduzione dell'intermezzo, brano che ebbe modo di primeggiare nei concerti lirico-sinfonici del maestro. E dopo una duttile Bohème dai tratti impressionistico-crepuscolari, Tosca, opera solitamente definita verista che nell'interpretazione di Molinari Pradelli appare di un Verismo misurato, colto di sbieco, di sfuggita, o comunque affrontato con la dovuta discrezione: sono aspetti che ritroviamo nelle due edizioni discografiche Cetra e Decca. Riferendoci alla prima, definita da Alberto Cantù elegante, fine e senza tempo, diremo che ne esce un trascinante meccanismo teatrale basato sui principali punti di forza. All'aprirsi del sipario la chiesa di S. Andrea della Valle viene scossa dal fragoroso irrompere dell'attacco iniziale: una folata improvvisa che il direttore vive come un lembo di uragano dal piglio aggressivo, dalla tinta ferrigna, dalle intenzioni malvagie. C'è qualcosa che sfreccia precipitosamente: è l'imperioso motivo di Scarpia che si propagherà nell'opprimente penombra, riproponendosi come finale del primo atto con una perentorietà ossessiva e isterica ma variamente articolata. E dalla chiesa si passa al clima di Palazzo Farnese, sotto l'incombere della scena della tortura: un momento più esplosivo che congestionato, all'insegna del più aspro realismo. Una tensione spasmodica attanaglia i protagonisti e si placherà solo dopo la lapidaria frase di Tosca "Or gli perdono", cui risponde un'orchestra dai lineamenti decisi e dalla cupa profondità. Nel terzo atto, dopo l'arcano incanto di un'alba romana, tra brume misteriose si fa largo il tema cardine, tagliente come le prime luci del sole, riaffacciandosi nella romanza entro un alone di mistero, complice il clarinetto che sembra uscire dall'incerto chiarore di una luna velata. E non appena il cerchio si stringe, rieccolo, a tutta orchestra, implacabile nel concludere l'opera con rabbiosa disperazione. Un segno manifesto della volontà di riscoprire lavori sepolti o scarsamente conosciuti è quello relativo alla Rondine, non solo recuperata in teatro ma anche consegnata al disco. Sotto la parvenza dell'operetta si muove un'opera di prim'ordine e tale ce la rende il direttore bolognese, sfoggiando una versatilità e una scioltezza capaci di strappare il plauso al non facile Rodolfo Celletti. Una Rondine che fa veramente primavera risulta di incitamento a proseguire su questa strada. Del trittico pucciniano Molinari Pradelli affronta discograficamente Gianni Schicchi, cui imprime un andamento serrato e ininterrotto, lasciando scorrere i brani più orecchiabili e perciò cercando di non farne il centro di attrazione. Infine, eccoci a una Turandot lodatissima dalla critica: una partitura da ritenersi più esplicita che elusiva, nella quale il direttore evidenzia il senso della modernità, prefiggendosi comunque di non cercare vie di fuga verso orizzonti tutto sommato estranei all'autore.
La monografia, la critica, la collezione
La lunga carriera del maestro occupa una metà di Francesco Molinari Pradelli. La genialità della tradizione, monografia di Daniele Rubboli (Parma, Azzali, 2013) che s'avvale di contributi di Piero Rattalino, Giorgio Gualerzi, Andrea Emiliani, Angelo Mazza e di una sagace prefazione di Pupi Avati (nonché di un notevole apparato fotografico). Contributo incentrato sulla musica è quello di Gherardo Ghirardini, Francesco Molinari Pradelli da Bologna al mondo, in "Martini" docet, a cura di Piero Mioli, Bologna, Conservatorio "G. B. Martini", 2007, pp. 105-117. Ne derivano i primi tre paragrafi di questo scritto, un po' snelliti e aggiornati ma privati delle note (la nota 24 elenca le opere dirette al Comunale), che documentano la grande ricchezza della critica periodica. Fra le testate si citano «La tribuna», «Il messaggero», «Il piccolo», «Il corriere di Trieste», «La patria», «Il corriere degli spettacoli», «La gazzetta d'Italia», «Politeama», «Il gazzettino», «L'eco di Bergamo», «Il tempo», «Arte e modanità», «Gazzettino di Verona», «Il corriere d'informazione», «Il corriere della sera», «L'Adige», «La notte», «L'Arena», «Il giornale», «Los Angeles Herald and Express», «Frankfurter Allgemeine Zeiting», «La tribune de Genève», «Momento sera», «New York Times», «Il Resto del carlino», «Repubblica», «La Nazione», «Il mattino», «Il Tevere», «Il giorno». Fra i nomi di critici, ancora alla rinfusa: Mario Cattafesta, Adone Zecchi, Giovanni Carli Ballola, Mino Piccinelli, Edilio Frassoni, Paolo Gallarati, Rodolfo Celletti, Mario Nordio, Beniamino Dal Fabbro, Franco Abbiati, Giorgio Gualerzi, Piero Mioli, Duilio Courir, Alberto Cantù, Paolo Isotta, Elvio Giudici, Alessandro Nava.
E dopo la carrellata musicale è doveroso ricordare l'impegno di un artista che all'orecchio musicale ha saputo alternare lo spirito d'osservazione, l'occhio clinico, vien fatto di dire lo sguardo d'aquila dell'esperto d'arte, attraverso una ricerca da lui stesso definita solitaria e perciò estranea a qualsiasi tipo di mondanità o logica di mercato; e con una dedizione che gli ha consentito di ospitare sotto il medesimo tetto capolavori del Barocco ma anche tele appartenenti al prezioso sottobosco dei minori e degli anonimi. Tutte creature amate indistintamente come una grande famiglia: tanto per citare cosi, a zigzag, Guido Cagnacci, Marcantonio Franceschini, Giuseppe Bazzani, Luca Giordano, il gruppo dei Gandolfi, le nature morte napoletane. Una collezione che vive all'interno della bellissima villa di Marano (Bologna), dove si respirano a pieni polmoni secoli di storia. Il tutto, a riprova di un collezionismo nato e cresciuto nel segno della sensibilità, della passione e della vocazione più autentica. Al proposito: Eugenio Riccomini, introduzione a La raccolta Molinari Pradelli (a cura di Carlo Volpe), Firenze, Centro D, 1984; e Arte a Teatro. Collezione Molinari Pradelli, Bologna, Teatro Comunale, 2004.
Gherardo Ghirardini
Molinari Pradelli da Bologna al Mondo
in Jadranka Bentini e Piero Mioli (a cura di)
Maestri di Musica al Martini. I musicisti del Novecento che hanno fatto la storia di Bologna e del suo Conservatorio
Bologna, Conservatorio «Giovan Battista Martini», 2021